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Ci vediamo a Parigi?
Per il lavoro che faccio, è una domanda normale. Perché a Parigi, per lavoro, ci vengo spesso.
Da quando ci vengo per lavoro, Parigi ha smesso di essere un passaggio eccezionale, ho smesso di osservarla come turista ed è entrata nel mio quotidiano.
Ci sono l’albergo, l’ufficio, le due/tre commissioni da fare nei negozi che trovi solo a Parigi, ma questo è. Un posto come un altro.
Eppure, per un gioco, in questi giorni la sto guardando come un turista. Conoscendola un po’, però. La sto rivedendo nella sua bellezza.
Sto riscoprendo la sua polverosa bellezza. Troppa per i miei gusti. Troppo sfarzo, troppa “grandeur”, troppi turisti.
Ma mi piace come lei accoglie tutto questo. Sì, perché per me Parigi ha una vita propria. Lei accoglie tutto con una indefettibile indifferenza. È come Lady Violet di Downtown Abbey. Non è cattiva, ma fa parte di un altro rango, quindi non capisce la grettezza dei suoi visitatori ed occupanti temporanei. Lei è eterna, chi la abita – che siano tre giorni o che sia tutta la vita – è solo di passaggio. Lei c’è sempre stata e ci sarà sempre, indipendentemente da qualsiasi essere umano.
Una volta che si è capito questo di Parigi, la si rispetta di più. E si accetta la pioggia, gli scioperi, i parigini, i cantieri, i turisti…
C’è una cosa che non posso fare a meno di fare quando vengo qui. E lo faccio tutte le volte. Andare a trovare Monet. Le “mie” ninfee.
Sarò una persona profondamente banale, ma adoro gli impressionisti e Monet è – come direbbero i bambini – il mio super preferito. Quasi ogni suo quadro mi dà gioia, una gioia profonda, immersiva.
Per tanto tempo ho cercato di capire cosa mi prendesse così tanto degli impressionisti. Ho cercato anche, per un periodo, di fare la figa e studiare altre correnti artistiche, dal cubismo all’arte contemporanea. Le ho “capite”, le ho apprezzate, ma non le amo. Torno sempre a loro, gli impressionisti e, su tutti, lui, il mio amico Monet.
Piano piano ho capito perché mi piacciono. Fino a questa mattina avrei detto: mi piace il fatto che siano tratti veloci, abbozzati. Mi piace che da vicino quasi non si capisca nulla e che si debba fare tre passi indietro per vedere l’immagine. Mi piace perché in qualche modo quel metodo mi assomiglia. A me entrare nel dettaglio non piace, mi piace dare dei tratti veloci, senza soffermarmi troppo, però ci tengo che poi l’immagine completa si veda e si capisca.
Oggi, invece, ho capito un po’ meglio perché mi piace tanto Monet. Perché mi piaccia tanto stare seduta nella seconda sala dell’Orangerie.
Monet tratteggia in modo imperfetto. E’ l’imperfezione del tratto che permette alla mente di completarlo, quindi l’osservatore ha un ruolo attivo: la retina completa il dipinto e gli dà vita. Si entra nell’immagine, si è parte di essa. Non si può limitarsi a guardare, bisogna osservare e, quando si inizia a mettere a fuoco, rilassare gli occhi e lasciare che la mente si faccia catturare dalle immagini ed inizi a sognare, completare, attualizzare, rendere viva quell’immagine. Allora le increspature prendono vita e tutti i sensi seguono il sogno della mente. Quasi si sente un leggero sciabordio dell’acqua, un suono leggerissimo, quasi impercettibile perché la mente sa che le ninfee galleggiano in acque ferme, quasi putride. Ed allora anche l’olfatto segue e ricrea quell’odore particolare che si sente solo dove le acque non scorrono. È un vortice. Improvvisamente e del tutto inaspettatamente si viene trasportati lì, a Giverny, esattamente dove Monet ci voleva portare.
No, non mi drogo. È il potere dell’immaginazione che fa tutto.
Naturalmente questo meraviglioso trip non può che durare poco perché, purtroppo, in tutta questa bellezza, all’improvviso appare il giapponese o l’indiana che si fanno selfie davanti ad un pezzo di tela.
E lì si torna alla realtà. Si torna a Parigi. Alla vecchia signora che imperturbabile accoglie tutti con indifferenza, me che faccio voli pindarici su un pezzo di tela, i turisti che cercano di vederla in un giorno, i parigini che emulano goffamente la sua indifferenza, le modelle, i giornalisti, le persone in cerca di fortuna. Tutto un vortice di suoni, idiomi, colori, razze, mondi che si incrociano e Parigi lì che assiste, un po’ annoiata ed indifferente, alla vita che scorre, intorno a lei. Perché tutto passa, lei resta.
English Version
Paris – the non-journey
See you in Paris.
I say it regularly for work, as I come to Paris very often, for work.
Since I started to travel here for work, Paris stopped being a special place, I stop seeing it as tourist and Paris entered in my normal routine.
There is the hotel, the office, two or three shops that you find only in Paris, but that’s it. A place like home. Nothing special.
This time, to do an experiment, I am looking again at Paris like a tourist. I am re-seeing her beauty.
I am re-discovering her powdery beauty. Too much for me. Too much pomp, too much “grandeur”, too many tourists.
But I like the way she welcomes all that. I say “she” because, to me, Paris is alive. She welcomes everything with an unfailing disregard. She’s like Lady Violet of Downtown Abbey.
She’s not bad or cruel, she’s from another rank, so she does not understand the narrow mindedness of its visitors and temporary inhabitants.
She is eternal, whoever lives in her – for three days or for a lifetime – is only passing. She has always been here, and she will always be, irrespective of any human being.
Once you have understood this of Paris, you respect her more. And you accept the rain, the strikes, the Parisians, the construction sites, the tourists…
There is one thing I urge to do any time I come here. And I do it every time. Go to visit Monet. My water lilies.
I might be a very banal person, but I adore the impressionists and Monet – like the children say – it’s my super-favorite. Almost any painting of him gives me joy. A deep, immersive joy.
I’ve tried to understand – for quite a long time – why I liked the impressionists so much. For a certain period of time, I’ve also tried to focus on different periods, playing it cool and “studying” other art movements, from cubism to contemporary art. I understood them, I’ve appreciated them, but I do not love them. I do always go back to the impressionists and, above them all, my friend Monet.
Slowly I understood why I do like them. Until this morning I would have said: I love the fact that they are quick brushstrokes, just sketched. I like the fact that, when you get close to them, you do not visualize anything: you need to do three steps back to see the image.
I like it as such method, somehow, represents me. I do not like so much to dig in the details, I rather prefer to give quick brushstrokes, without wasting time in refining the detail, still I like that the full picture, at the end, becomes clearly understandable.
Today I realized why I like so much Monet. Why I love to go and sit in the second room at the Orangerie.
Monet draws in an “imperfect” way. The imperfection of the brushstroke allows the mind of the observer to complete the drawing. So, who observes has an active role: the retina completes the drawing and gives life to it. You enter the image, you become a part of it. You can’t just look, you need to observe, relax the eyes and allow your brain to be captured from the images and have your mind starting to dream, complete, actualize, bring to life such image. At that point the ripples take life and all your senses follow the dream the mind is experiencing. You almost hear a soft lapping of the water, an ultra-light sound, almost inaudible, because your brain knows that the water lilies grow and float in still water, almost putrid. At that point even the sense of smell recreates that particular scent that you can smell only where water is not flowing. It’s a whirl. Suddenly and unexpectedly you are there, in Giverny, exactly where Monet wanted you to be.
No, I do not take drugs. It’s the power of imagination.
Obviously, this trip can’t last long as, suddenly, while contemplating this beauty, out of nothing a Japanese or an Indian appears and takes a selfie in front a part of the canvas.
And suddenly you’re back to reality. To Paris. To the imperturbable old lady that welcomes everybody with disregard: me, doing Pindaric flights on a canvas, tourist trying to visit her, Parisians clumsily trying to emulate her disregard, models, journalists, etc.
Everything in a vortex of sounds, languages, colors, races, worlds that cross each other. And Paris witnesses to all that, a little bored and careless, witnesses to the life that flows around her. Because everything flows. It’s only her that stays.
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